Storia di Angélica

Storia di Angélica

Quando vivevo in Venezuela facevo la giornalista.

Dopo un'esperienza vissuta in uno dei “barrios” più poveri di Caracas, mi è venuta l'idea di fare un libro di reportage il cui titolo sarebbe stato Los niños invisibles (I bambini invisibili).

Volevo raccontare la storia di tanti piccoli che nascono per le strade di quella città, ma che per diversi motivi non hanno un’identità, non hanno documenti, non esistono per nessuno. Sono stranieri, illegali nella loro propria terra.

Nel 2015 i piani sono cambiati. Ho deciso di uscire dal Venezuela per inseguire il mio cuore. Adesso faccio parte dei 253.531 cittadini stranieri che vivono a Milano, ovvero dei 5.030.716 di stranieri che popolano l’Italia.

Ma non vi mento, mi considero una migrante fortunata.

Da quando sono uscita dal Venezuela non ho dovuto aspettare molto tempo per cominciare a lavorare in una delle aree per cui mi sono preparata all’università: la traduzione e l'interpretazione.

Certo, non è stato tutto rose e fiori, prima ho dovuto arrangiarmi con quello che mi offriva una città che mi considerava una sconosciuta in più. Così ho cominciato a fare dei piccoli lavori consegnando volantini per una azienda di servizi linguistici e poi ho fatto l’insegnante di inglese e spagnolo per bambini e adulti.

L’arrivo dell’inverno è stato la mia più grande sfida, e la mia prima nevicata la mia più grande scoperta, avevo 28 anni. Ero abituata al tropico, ci voleva del tempo per imparare che in inverno non si può uscire dalla porta di casa con una t-shirt a maniche corte. I’ve learned it in the hard way.

Nel frattempo, tra consegne di CV e ore di ricerca di lavoro, nel 2016 ho cominciato ufficialmente a fare la traduttrice e interprete. Ero felice, tuttora lo sono, perché le lingue e la comunicazione sono tra le mie più grandi passioni.

Sono stata fortunata, ripeto, perché la mia guida è stata il mio Ema, un veneto internazionale e intelligente che ho sposato e che mi ha aiutato a cominciare a scrivere la storia di una straniera che ce la sta facendo in Italia.

Perché adesso, grazie al mio lavoro come libera professionista, posso garantirmi uno stipendio degno, e di quello ne vado fiera. E sì, sono stata fortunata perché non ho dovuto attraversare il mare in un gommone, senza documenti, da sola e senza nessuno che mi aspettasse con un pasto caldo e un supporto.

Non ho dovuto fare dei lavori precari e nessuno mi ha sfruttata. Vivo, come tutti, tra alti e bassi, rinnovando il mio permesso di soggiorno ogni 5 o 10 anni e lottando ancora con il peso burocratico del mio Paese d’origine, ma niente di che.

Niente di che, in confronto con le migliaia di sbarchi che arrivano ogni anno nelle coste italiane, con i venditori di rose in ogni angolo delle grandi città, i rider, i raccoglitori di pomodori che guadagnano 3 euro al giorno, il medico discriminato perché oltre ad essere straniero ha la pelle più scura, le badanti che si prendono cura dei nonni, e tutti quelli che aspettano un semplice documento che li permetta di lavorare decentemente.

Nonostante questo, l’Italia è un Paese meraviglioso che mi ha accolto con le braccia aperte. Il mio desiderio è che tutti quelli che hanno scelto questa terra buona e piena di cultura, abbiano la mia stessa fortuna, se per fortuna intendiamo lavorare e avere una vita degna.

Così, insieme a Ema (la versione corta di Emanuele), ho deciso di fare un passo in più. Abbiamo creato Broccoly, una Società Benefit che ci ha battezzato come imprenditori. Mi piace l’idea di far parte di quegli lavoratori stranieri in Italia, pari al 10% del totale, che contribuiscono all’economia e allo sviluppo del Paese con il 9% del PIL, pagando, inoltre, 640 mila pensioni agli italiani grazie ai loro contributi previdenziali.

Magari questa volta non racconterò la storia dei bambini venezuelani “invisibili”, ma quella degli immigrati “invisibili”. Spero che con Broccoly, Ema ed io possiamo farvi ispirare da un’Italia diversa.

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